Confessioni di un cristiano ribelle

Confessioni di un cristiano ribelle

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“Una delle decisioni più difficili che dovetti prendere per quel libro fu continuare a usare la parola «spiritualità». Non mi piacevano le sue connotazioni eccessivamente introspettive, quasi di invito a contemplarsi l’ombelico, e le sue connotazioni privatistiche, del tipo «io e Dio». Ma percepivo anche che non esistevano altri termini nella lingua inglese per descrivere l’elemento centrale di una religione sana, e quindi ritenni che il termine «spiritualità» fosse degno di essere recuperato. Quando il libro apparve, nel 1972, mi arrivarono moltissime lettere e molti inviti a parlare e a condurre dei laboratori.

Accolsi queste opportunità di viaggiare per il paese per capire che cosa pensavano le persone e in che modo i miei pensieri influenzavano i loro. Tornato a Chicago, trovai un’occupazione part time nel dipartimento di Teologia della Loyola University. Alla fine di una delle mie lezioni una studentessa mi disse: «Lei deve scrivere un libro pratico in cui spiega che cosa si fa quando si prega». Decisi di accogliere l’idea e scrissi Whee! We, wee All the Way Home: A Guide to Prophetic, Sensual Spirituality. In questo libro operavo una distinzione tra estasi di tipo naturale ed estasi di tipo indotto, per esempio tra l’esperienza della natura, dell’arte, dell’amicizia, del sesso, del lavoro e della sofferenza, che chiamai «estasi naturali», e i rosari, il celibato, il digiuno e altre cose di questo tipo, che sono tecniche per raggiungere stati alterati di coscienza e che chiamai «estasi indotte».

I lettori trovarono questa distinzione molto utile. Mi ricordo che quando tenni una conferenza in una parrocchia cattolica della zona occidentale di Chicago gli astanti si alzarono in piedi ad applaudirmi. Questa accoglienza mi convinse della potenza e dell’utilità di tale distinzione. Inoltre, in questo libro per la prima volta mi confrontavo con una nuova maniera di dare un nome al viaggio spirituale. Il termine Whee! (un’espressione infantile di gioia) esprimeva l’esperienza dell’estasi, il termine We (noi) rappresentava la nostra consapevolezza simbolica, che si sviluppa nel passaggio dall’io al noi, e il termine wee (qualcosa di molto piccolo) parlava della lotta profetica, perché quando lottiamo per la giustizia ci accorgiamo di essere molto piccoli di fronte ai mostri istituzionali e ai poteri forti.

(…) Le suore del Sacro Cuore che conobbi al Barat College erano intelligenti, divertenti e molto impegnate nel loro lavoro, che consisteva nell’istruzione delle ragazze e delle donne di ogni età.

C’era suor Martha Curry del dipartimento di Inglese, suor Sophie Cooney, una donna brillante che dirigeva il dipartimento di Studi umanistici, e molte altre che presi a considerare come amiche sia al campus sia fuori. Questo era un periodo in cui molte donne di mezza età ritornavano sui banchi di scuola. Il primo anno avevo soltanto tre studentesse che intendevano specializzarsi in studi religiosi, ma quando lasciai la scuola quattro anni più tardi erano in ventinove.

Facevamo tante cose creative, come organizzare una messa in latino completa di canti gregoriani cantati dalle studentesse della mia classe di studi medievali. Mi piaceva tenere corsi interdisciplinari insieme con docenti di altri dipartimenti, incluso un corso di sociologia della religione e uno di letteratura e spiritualità. Nel corso di quest’ultimo, incontrai per la prima volta la poesia di Adrienne Rich, che da quel momento in poi è stata per me un dono enorme.

Per il mio corso di base sulla religione in America facevo leggere Albert Einstein, perché ero rimasto commosso dalla sua coscienza morale e dalla sua sensibilità per il mistero e il misticismo. Utilizzavo anche Corpo d’amore e La vita contro la morte, di Norman O. Brown, oltre all’opera di Sam Keen sul pensiero apollineo e il pensiero dionisiaco. Essendo l’unico insegnante a tempo pieno del dipartimento, insegnavo materie che andavano dalla Bibbia ai mistici fino alla teologia della liberazione e alla psicologia della religione. Mi divertivo moltissimo. Le mie studentesse erano molto desiderose di apprendere e di mettere le ali, grazie all’emergere del movimento femminista.

La teologa femminista cattolica Rosemary Ruether accettò di tenere un corso presso di noi e invitai Mary Daly a parlare a un convegno sponsorizzato dalla scuola. Ero stato profondamente colpito dalla lettura del suo libro, Al di là di Dio Padre. Sentivo che lì c’era una teologia che faceva qualcosa di simile a quello che io stavo cercando di fare: lasciarsi alle spalle simboli, nomi e metafore che non funzionavano più. Pieno di entusiasmo, le telefonai al Boston College, dove Daly insegnava, mi presentai e la ringraziai per il libro.

Le dissi che, a confronto del suo libro, Karl Marx sembrava un imbranato. Ci fu una lunga pausa e poi lei disse: «Grazie molte». Più tardi, quando venne al nostro campus e la incontrai, mi resi conto che al telefono avevo detto proprio la cosa giusta. Ricordo il suo humour irlandese e i suoi occhi danzanti durante la cena, ma anche lo scandalo che causò quando, dopo la sua lezione, rifiutò di permettere agli uomini di fare domande. Era giunto il tempo di ascoltare le voci delle donne, spiegò. Metà dei professori del Barat College a quel punto uscì dalla sala. La sua visita causò moltissime discussioni e continuammo a parlarne per mesi. È chiaro che il dono più grande che ricevetti dal Barat College fu l’approfondimento della mia consapevolezza femminista. Ciò che mi aprì gli occhi fu lo stare seduto ad ascoltare le storie raccontate dalle donne, sia durante le mie lezioni sia fuori dall’aula. Non era molto diverso che viaggiare in una nazione del Terzo Mondo per la prima volta, nel senso che i miei privilegi di maschio vennero subito alla luce. Mi ricordo il giorno in cui dissi a un amico che le statistiche sulla violenza sessuale in America erano del tutto sbagliate, basandomi sulle storie che avevo sentito al mio college. La mia esperienza, infatti, era che una donna su tre aveva una storia di violenza sessuale alle spalle. Venivano da me delle donne a raccontarmi i loro litigi con i mariti per riuscire a tornare al college a finire il loro baccellierato. I mariti però avevano dei master in business e lavoravano al centro finanziario di Chicago!

Una di queste donne dovette andarsene di casa. Mi sentivo solidale con la loro lotta. Leggevamo insieme gli scritti di filosofe e teologhe, e così potei partecipare al percorso di consapevolezza di molte di queste donne. Mi ricordo che un giorno una giovane donna che era di turno nel guidare il seminario venne in classe con una tisana rossa per tutti. Ci sedemmo in circolo a berla mentre lei spiegava che cosa significava per lei il periodo delle mestruazioni. Praticamente io stavo recuperando tutti gli anni a Parigi e quelli precedenti nei quali non avevo mai avuto una donna tra i miei insegnanti. Stavo frequentando un corso intensivo in women’s studies. Anche le studentesse ebree del Barat College mi insegnarono molte cose.

Ricordo il giorno in cui le mie studentesse, quasi tutte cristiane, stavano discutendo il peccato originale. Alla lezione successiva una studentessa ebrea venne da me e mi chiese: «Che cos’è questo peccato originale di cui stavamo discutendo la volta scorsa?». «Certamente lei conosce il peccato originale, se ne parla nel libro della Genesi», risposi. «No», disse. «Sono un’ebrea praticante da quarantuno anni e non ho mai sentito un rabbino o qualcun altro parlare del peccato originale.» Questa cosa mi aprì gli occhi. La distinzione tra la caduta e il peccato originale rese più acuta la mia consapevolezza di quanto il cristianesimo si era allontanato dalle sue radici ebraiche. Questa studentessa aveva studiato per anni con il rabbino Abraham Joshua Heschel e mi fece conoscere le sue opere.

Fu un dono enorme, e poco alla volta imparai ad amare la sua persona, la sua teologia e la sua testimonianza (era andato a marciare con Martin Luther King a Selma, per esempio). Heschel è stato un leader del dialogo tra ebrei e cristiani. Più passano gli anni e più mi piace tornare alla sua spiritualità dello stupore, della meraviglia, della grazia e della profezia, davvero una spiritualità incentrata sul creato. Se mi trovassi su un’isola deserta e mi fosse permesso di leggere soltanto un teologo, questo sarebbe Heschel. Certe volte quando lo leggo mi sembra di sentire le parole di coloro che furono i mentori di Gesù, il quale in fin dei conti era un ebreo.”

Da Matthew Fox, Confessioni di un cristiano ribelle, trad. di Gianluigi Gugliermetto, Garzanti, 2015, pp. 90-93

Un sito sulla teologia di Matthew Fox